Una vita di Golf
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CHI NON PASSA IL TEE DELLE DONNE PAGA DA BERE
 di: Pani Rabossi

Ho dedicato al Golf almeno metà della mia vita; sarei sciocco ad affermare che ho sprecato l'altra metà, e qualcuno potrebbe giustamente offendersi, ma tanto è forte la nomea di stupidità che aleggia sui golfisti, che per non deludere chi golfista non è e la pensa in questo modo, dichiaro che ho trascorso sui campi di Golf troppi momenti di completa felicità per non considerarlo una parte integrante, se non la migliore, della mia esistenza.

Il fatto è che, dopo trent'anni dal nostro primo appuntamento, sono ancora perdutamente innamorato di questo gioco.

Poiché, però, di questo amore sono stato ricambiato in misura piuttosto scarsa, e le speranze di scoprirne il Segreto si affievoliscono in misura proporzionale all'età che avanza, non ho trovato di meglio che raccontare a me stesso la storia di questo amore, che è poi la storia di ogni golfista entusiasta e deluso, con lo scopo di mantenere alto l'entusiasmo e cercare di limitare la delusione.

Ancorché la mia famiglia possedesse una casa nel comprensorio di un Golf tra Milano e Como, nel dicembre del 1968 la mia opinione sul tale gioco non differiva da quella del novantanove per cento degli italiani: un passatempo stupido per vecchi un po' rincitrulliti. Ben altri erano in quel momento, a ventiquattro anni, i miei interessi.

Ed è proprio nell'ambito della coltivazione del principale dei miei vari interessi che mi sentii sconcertato ed un poco offeso quando la dolce fanciulla sulla quale avevo posato gli occhi sperando in sviluppi non soltanto visivi, rifiutò il mio invito a cena adducendo la ridicola scusa che quella sera aveva lezione di Golf.

Ma, come dice il Poeta, più che l'onor poté il digiuno e quindi, sfruttando non tanto il mio fascino quanto la mia capacità di insistere fino alla nausea ed oltre, riuscii a farle accettare che sarei andato a prenderla dopo la lezione, in una palestra quasi in centro, a Milano.

Essendo arrivato qualche minuto prima delle concordate venti e trenta, assistetti con perplessità allo strano balletto che un omone in nulla rassomigliante al giocatore di Golf quale da me immaginato, cercava di far eseguire alla mia futura compagna, quantomeno di cena.

Finito il balletto, l'omone mi chiese brutalmente se volevo provare a tirare qualche colpo ed io, che già avevo la mente concentrata sulla serata di delizie che mi aspettava e continuavo a non provare alcun interesse per quella strana attività...accettai.

Le faccio vedere come si fa, disse;  mise una pallina sul tee e la sparò al centro della rete.

Fornitomi  un guanto, che non riuscii a rifiutare nonostante fossi convinto che alla mia rude pelle non fosse necessario un tale femmineo orpello, mi diede un bastone, ora so che era un driver, mi fece vedere come impugnarlo e come mettermi sulla palla e mi ordinò perentoriamente "picchi più forte che può".

Ora so anche che il mio primo maestro non era Leadbetter; ma a lui va ancor oggi tutta la mia gratitudine.

Alle ventuno e trenta la dolce fanciulla dichiarò che preferiva andare a casa, ma io a stento realizzai che essa andava ad aggiungersi alla schiera dei fiori che non colsi, perché ero troppo impegnato nella mia lotta mortale con la pallina.

Alle ventidue e venti colpii la pallina quasi al centro della faccia del bastone facendola volare contro la rete, invece che contro la scrivania o l'attaccapanni come tutte quelle che l'avevano preceduta, ed ebbi una chiara intuizione di cosa aveva provato Paolo sulla via di Damasco.

Poco prima di mezzanotte il Maestro, titolo che a mio avviso gli andava ormai persino stretto, mi disse che sarebbe andato volentieri a dormire. Disse anche, losco e mendace mio benefattore, che vedeva in me ottime possibilità di imparare a giocare, e ne ebbe in cambio la prenotazione di un quantitativo industriale di lezioni per tutto il mese di gennaio.

Ad esse si sarebbero poi aggiunte quelle non meno numerose di febbraio e marzo. A proposito, la mia rude pelle aveva sì bisogno del guanto, ed in quei mesi gradì anche alcune decine di metri di cerotto; ma tanta sofferenza ed una pervicacia che potrei soltanto definire golfistica, o forse la nausea di ripetermi invano di girare le spalle, fecero sì che alla fine di marzo il Maestro affermasse che potevo andare in campo.

Fu così che mi trovai sul tee della uno del circolo dove avevamo la casa, ora vista con altri occhi, circolo dove, tanto per fare le cose gradualmente, mi ero  fatto socio dopo la seconda lezione. Farmi socio era stato facile: amici e parenti golfisti si erano fatti in quattro a tale scopo pregustando le scatole di palline che mi avrebbero sottratto nelle future partite.

Fatto si è che quel giorno, era il 1° aprile del 1969 e la data è sintomatica della mia successiva carriera di golfista, feci le mie prime 18 buche insieme al Maestro. Non ricordo nulla, se non che il verde prato della Lombardia su cui mi trovavo era sempre troppo alto o troppo basso e che la mia pallina obbediva a leggi fisiche imperscrutabili, il che è tipico del Golf, mentre il Maestro tirava drive di oltre 250 metri e ferri che finivano invariabilmente in bandiera. Ricordo però che alla 18 feci quattro, cioè par, e che il Maestro mi sembrò un po' meno irraggiungibile. Non ero più, rispetto a lui, come un pesce del lago di Tiberiade; diciamo che mi sentivo al livello di un apprendista apostolo.

Al bar quel sant'uomo mi presentò il mio score, firmato, di 101 colpi; poi mi disse di aspettare che sarebbe andato in segreteria. Quando tornò mi comunicò che il Segretario aveva accettato di darmi l'handicap 24.

Non era il mio tipo, io preferisco i biondi, ma mi trattenni a stento dal baciarlo. Soltanto dopo fui assalito da alcuni dubbi quali ad esempio:

- come aveva fatto a segnarmi sei alla 8, par quattro, dove ricordavo benissimo i cinque putt?
- e quel sette al par cinque dove avevo perso la palla e fatto i consueti tre putt?
- e non è che volesse ricompensarmi di avergli permesso con le mie decine di ore di lezione di cambiare la sua scassatissima 600?
- ed il Segretario, quando firmò il fatidico 24, era sobrio come gli succedeva un paio di volte all'anno o era ubriaco come negli altri 363 giorni?

Forte della mia preparazione giuridica, ero però certo che per l'handicap, a differenza che per la donazione, istituto peraltro con cui il mio 24 pareva avere alcune analogie, non era prevista la revoca, e quindi ero a tutti gli effetti un golfista e tale sarei rimasto.

In ogni caso il mio programma prevedeva la cancellazione di ogni dubbio in proposito con una bruciante discesa verso la zona dello scratch entro breve tempo.

Ed avevo proprio ragione: ci ho messo infatti soltanto trent'anni, duecento ore di lezione, circa settantamila buche giocate e duecentomila palle di pratica nonché un chilometro di cerotto per scendere ad un handicap di una sola cifra. Ma questo non toglie nulla alla mia felicità quando ho conquistato il sospirato 9.

Di quel giorno ho un vago ricordo: era il 4 luglio 1996, tee time alle 9.56 e se volete vi descrivo ogni colpo del mio giro e che tempo faceva.

Tornando a trent'anni e quindici colpi di handicap prima i miei ricordi sono ancora chiarissimi: quattro giorni e mezzo alla settimana di lavoro, facevo l'avvocato, e dal venerdì pomeriggio alla domenica sera, più tutte le feste comandate e molte soltanto tollerate: finchè c'era luce, Golf, e dall'imbrunire, bridge.

Era, quest'ultimo, la mia seconda passione, ed ancora oggi gioco, seppur saltuariamente, ad un livello analogo a quello del Golf, cioè discretamente con saltuari socket e flappe. Ma in quegli anni il bridge svolgeva per noi l'importante funzione di attenuare sia le perdite che le vincite delle innumerevoli partite di Golf, perché tra i quattro o cinque compari fissi che eravamo, chi brillava sul campo generalmente si dimenticava di contare le atout, mentre gli assi della compressione avevano seri problemi di swing.

Trascorsi così, in un empireo non dissimile da come ogni golfista immagina dovrebbe essere il paradiso, una mezza dozzina di anni. Il mio gioco migliorò molto lentamente fino ad un decoroso quattordici di handicap ed il circolo continuava ad essere frequentato da me assai più del tribunale.

Ma è ora che confessi le mie colpe: nel 1975, quasi improvvisamente, smisi di giocare sia a Golf che a bridge. Non sto a farla lunga perché uscirei dal seminato, anzi, dallo zappato: io avevo trent'anni e lei diciotto, i capelli lunghi e biondi e gli occhi verdi. Vi basta?

Per sette anni non toccai un bastone e la mia vita si articolò in eventi marginali come un matrimonio, non con la suddetta, un paio di figli, nemmeno essi con quella dolce fanciulla, il trasferimento in uno sperduto paesino tra le risaie della Lomellina e l'abbandono dell'odiata-amata professione forense.

Come abbia fatto a smettere di giocare per così lungo tempo è per me ancora un mistero, profondo quasi come la meccanica dello swing; ma evidentemente pare possibile, in determinate condizioni, sopravvivere anche senza Golf.

Vicino di casa tra le risaie dove vivevo avevo un cognato (nessuno è perfetto) che un giorno mi disse: "Ma tu non giocavi a Golf?" ed alla mia distratta risposta affermativa mi chiese se volevo accompagnarlo a Vigevano, dove a suo dire c'era un campo e dove avrebbe dovuto incontrare qualcuno per lavoro.

Non avendo di meglio da fare ed un po' stufo di cambiare i pannolini ai miei figli, attività che la mia consorte sostiene falsamente aver io svolto soltanto una volta, ed una volta di troppo dati i risultati, accettai. In fin dei conti era una bella giornata di inizio primavera e l'idea di rivedere un campo di Golf mi incuriosiva.

Pranzammo al circolo, all'aperto, e nell'aria cominciai a risentire qualcosa che mai avevo completamente dimenticato; mi presentarono il presidente, il segretario ed alcuni soci e mi fecero fare un giro delle nove buche. Alle 14,45 mi ero già fatto socio. Che ci siano analogie tra il Golf e la malaria? Si crede di esserne guariti ed improvvisamente il virus riappare più forte di prima.

Mi trovai a giocare in un campo per molti aspetti delizioso, con soltanto un paio di elementi negativi: da giugno a ottobre una media di duecento zanzare per metro quadrato e da ottobre a marzo nebbie come si trovano soltanto tra le risaie della Lomellina. Ma aprile e maggio erano splendidi, se non pioveva.

In realtà il campo aveva altre caratteristiche peculiari e preoccupanti: una larghezza dei fairway più correttamente misurabile in piedi piuttosto che in metri o iarde ed un numero impressionante di ostacoli d'acqua, nursery ideali per le suddette zanzare, non collocati da un progettista sadico come avviene oggi, ma creati da Qualcuno molto più in alto e lì lasciati per la costituzionale impossibilità di fare qualsivoglia movimento di terra, dato che la falda era poco sotto la superficie, diciamo quasi a portata di flappa.

Fu lì che imparai a sviluppare il mio modo di giocare: attaccato al bastone con l'Uhu al solo scopo di restare in pista. Le conseguenze sulla lunghezza potete immaginarle; ma parallelamente  sviluppai la capacità di giocare il mio handicap prendendo zero green nei colpi regolamentari grazie ad acrobazie varie negli ultimi trenta metri dalla buca.

E' purtroppo vero ancor oggi: io sono corto; direi anzi che non ho mai conosciuto un pari handicap più corto di me. La mia specialità coi legni ed i ferri lunghi è la smorzata ed è un vero peccato che, invece del tennis, abbia scelto il Golf.

Avete un'idea di come sia sgradevole, ad esempio in quelle poche gare importanti a cui partecipo ed in cui si parte per fasce di handicap, essere regolarmente overdrivati di 40 o 50 metri e sui par tre dover nascondere il ferro perché i compagni non scoprano che è un quattro mentre loro hanno giocato il sette o l'otto?

Non è neanche piacevole continuare a sentirsi dire con condiscendenza che la precisione paga più della lunghezza quando chi te lo dice gioca il ferro quattro al green di secondo ai par cinque. Anch'io gioco il ferro quattro, ma poi ho ancora in mano un nove pieno.

Devo però riconoscere che questi gorilla, oltre a tutto spesso di stazza inferiore alla mia o alquanto più attempati, dopo aver fatto 420 metri con drive e ferro quattro, spesso devono svuotare il bunker da tutta la sabbia prima di toccare il green o poi percorrerne ogni angolo prima di trovare la buca, sempreché non abbiano perso prima la palla.

Li odio lo stesso, maledetti lunghi, ed odio anche essere sempre in fairway; che bella deve essere l'aura dei picchiatori, che fanno anche tenerezza quando li incontri sulla cinque e sai che stanno giocando la otto.

Ormai, però, sono rassegnato e temo che lo sia anche il mio Maestro, che è trenta centimetri e trenta chili meno di me e trenta metri più lungo e non capisce che tecnica sopraffina io usi per non mandare la pallina troppo lontano.

Se comunque qualcuno soffrisse come me di questa brachifobia, consoliamoci insieme con i noti aforismi:

- i boschi sono pieni di drive lunghissimi;
- questo non è un gioco di forza;
- un drive di 250 metri conta come un putt di un metro;
- non importa come li hai tirati ma quanti;
- short is beautiful (questo, però, me lo sono inventato adesso).

Lungi da me voler dare consigli golfistici, non dimentichiamo, però,  che spesso non è che siamo corti: è che la prendiamo quasi sempre male e soltanto eccezionalmente bene e ci vuole un bel coraggio a pretendere di essere lunghi prendendo la palla male, fino a che i fabbricanti non si decideranno a lanciare sul mercato legni con lo sweet spot nel tacco e ferri con un collegamento ad infrarossi tra shaft e testa che impedisca per sempre il famigerato socket.

E come ulteriore consolazione potrete sempre pensare "se è diventato 7 (perché fin qui sono arrivato) quello lì, io potrei essere scratch".

Tornando alla nostra storia, per tutti gli anni ottanta il Golf continuò ad occupare prepotentemente la mia vita, frenato soltanto da un paio di iniziative imprenditoriali che mi permisero di mettere insieme un piccolo gruzzolo, partendo però da un grande gruzzolo, e da una moglie non golfista, affettuosamente chiamata palla-al-piede, che accoglieva i miei rientri dalle 27 o 36 buche di ogni sabato e domenica con un altrettanto affettuoso "ecco il grande assente".

Consiglio (in questo caso non sono previsti due colpi di penalità): nel matrimonio, tradimenti, ingiurie e percosse hanno effetti negativi modesti rispetto alla situazione "marito golfista - moglie non golfista" (probabilmente vale anche l'inverso, ma non ho molta esperienza come moglie).

Quindi, mi rivolgo ai golfisti uomini per necessità di cose, se non volete dover scegliere tra vostra moglie ed il Golf (cosa farebbe, poverina, da sola?), costringetela ad iniziare a giocare non appena appare in calo quel primo periodo magico di amore e di sesso. Diciamo che un mese dopo il ritorno dal viaggio di nozze può andare bene. Conoscete già le leve da utilizzare, false o vere che siano:

- ottimo per la linea;
- abbronzatura assicurata;
- ambiente chic;
- invidia delle amiche (salvo che le sue non siano di quelle con campo da polo personale ed annessi equini);
- una volta fattisi soci, non costa quasi nulla (quest'ultima, come sappiamo, è una balla clamorosa, ma quando lo scoprirà sarà tardi).

Come sempre, io ho avuto qualche difficoltà ad attuare quanto ora consiglio: ho impiegato, infatti,   una dozzina d'anni; ma ci sono riuscito, ed ora la consorte palla-al-piede è diventata una vera pallina-al-piede, con conseguenze positive anche sul mio gioco.

Nei ritagli di tempo tra un giro e l'altro ho avuto un paio di figli. Con ricatti ed offerte di denaro sono riuscito a far giocare mio figlio, anche se dopo un paio d'anni ho avuto qualche pentimento all'idea di essere presto overdrivato anche da quel quindicenne; ma è stata una grande soddisfazione quando un giorno, sul campo, mi ha baciato - non lo fa spesso - dicendomi grazie per averlo costretto ad imparare a giocare.

Ora tocca a mia figlia; anche se so che far innamorare del Golf una diciottenne è più difficile che far passare una pallina per la cruna di un ago, spero ancora di coinvolgerla distraendola da altre compagnie: sarebbe terribile se si innamorasse di un tennista.

Così, forse, ho sistemato moglie e figli; ma chi mai penserà a me? Più spesso di così non posso giocare ed il mio maestro sembra ormai rassegnato alla mia aurea mediocritas.

Perché, e non è falsa modestia la mia, non sono e non sarò mai un buon giocatore ed il mio attuale 8, di cui pur vado fiero, non basta quasi mai a trasformare un lordo appena decoroso in un buon netto.

St. Andrew è però stato buono con me e mi ha fatto diventare socio in un circolo nuovo dove sotto al 10 siamo quattro o cinque e quindi ci scappa ogni tanto un immeritato primo lordo, generalmente accompagnato da un meritato 0,1 in salita. Eppure, dopo tre giorni senza giocare sono già in crisi di astinenza: in inglese rende bene questo modo di essere l'espressione "avid golfer".

Alla fine degli anni ottanta un nuovo cambio di residenza, imposto dalla necessità di permettere alla mia consorte di continuare a lavorare al posto mio, mi costrinse a cambiare circolo, sostituendo alle zanzare lomelline del mio precedente le Mercedes, altrettanto numerose, del prestigioso club dove ero finito.

Fu un periodo buio, durato due o tre anni, perché il campo era impegnativo,  io avevo anche dei problemi non golfistici e quindi giocavo peggio del solito e, insomma, tutte le scuse son buone.

Così accolsi con gioia la notizia che, vicino a dove nel frattempo ero andato ad abitare, stava per essere aperto un nuovo campo. Dopo averlo visitato mi convinsi della bontà dell'investimento, ancora una volta sbagliando clamorosamente - si era all'inizio della Grande Crisi del Golf Italiano - e, felice proprietario di due azioni, mi misi ad aspettare con impazienza il completamento e l'inaugurazione del campo.

Andavo almeno una volta alla settimana a vedere le "mie" buche, ma più i lavori avanzavano più le caratteristiche del percorso mi apparivano diverse dal concetto classico di campo da Golf, molto più simili ad un esercizio di puro sadismo. Mi consolavo dicendomi che giocandoci sarebbe stato diverso, e così infatti avvenne: a giocarci era molto peggio.

Me ne resi conto il giorno dell'inaugurazione: avevo brigato col segretario per essere io a tirare il primo colpo e quindi con quattro settimane di anticipo chiesi il primo tee-time di quel 10 aprile 1993. Alle 8,15 ero già sul tee della uno con altri due maniaci, emozionato come un ladro al suo primo furto; naturalmente pioveva e faceva un gran freddo, ma ciò giustifica soltanto in parte che il primo tee-shot di un socio su quel campo, di cui tutti in zona parlavano, finisse miseramente nel laghetto strategicamente piazzato dove ere normale tirare.

Peraltro, l'alternativa sulla destra, separata da una sottilissima striscia d'erba, erano due giganteschi bunker; qualche altro bunker rendeva più interessante il secondo colpo, prima di un altro laghetto, su questo par 5; ma il terzo colpo sembrava proprio un facile ferro 9, salvo che era in salita tipo Messner e che vi erano altri tre o quattro profondi bunker ed un ostacolo d'acqua a difesa del green.

Bene o male ci arrivammo tutti con meno di mezza dozzina di colpi ciascuno; ma il green aveva una leggera pendenza dominante: dopo il primo putt due di noi su tre erano tornati in bunker.

Questa era la buca handicap 14 e le altre erano in proporzione.

Ne avevo tirati quasi un centinaio quando arrivammo alla 17, handicap 1; la descrivo perché rappresenta l'incubo di ogni golfista: ho visto gente arrivarci quattro sotto netto e finire con un onorevole NR.

Trattasi, la maledetta, di un par 4 di soli 400 metri di cui i primi 200 rappresentati da un fairway molto stretto con bosco impenetrabile a destra, ed a sinistra un lungo ostacolo d'acqua laterale al di là del quale, per non lasciare dubbi , c'è il fuori limite.

All'arrivo del drive, un innocente bunker cela, massimo del sadismo, un altro ostacolo d'acqua; nell'assai improbabile ipotesi che il tee-shot fosse atterrato nella striscia d'erba larga 15 metri tra bunker, acqua e bosco e ci si fosse fermato nonostante la pendenza di trenta gradi verso l'ostacolo, anche con un drive di 220 metri ci si trova a 180 metri dal green.

Con queste prospettive: piedi in basso, palla in alto, in discesa; per i primi 150 metri: fairway stretto con acqua a sinistra, verso cui naturalmente pende, e bosco a destra. Poi cominciano le difficoltà: ostacolo d'acqua frontale prima del green (preceduto e seguito da bunker e fiancheggiato dai consueti ostacoli  laterali) e, finalmente, green corto e duro con, cinque metri dietro, il fuori limite.

Ho visto una partita di quattro giocatori tirare 37 colpi e perdere cinque palle ed il più alto era 20 di handicap. Io, però, una volta ho fatto tre: top col ferro tre, mezza flappa col ferro quattro e ferro nove pieno in buca. Ed è questa la tattica che suggerisco per giocarla; le altre sono destinate a naufragare miseramente tra un doppio bogey ed un doppio par.

Ed è su questo campo che mi trovai a giocare, all'epoca 12 di handicap; per un anno non feci mai uno score sotto i 90. Come dice Bob Hope, ogni tanto mi trovavo a giocare alla grande, diciamo uno sul lordo, ma poi arrivavo alla buca 2 e rovinavo tutto.

Per fortuna le gare si vincevano mediamente con due o tre sopra par (possiedo un premio per il primo lordo con 90) ed il CSS dava normalmente gara non valida cosicché l'handicap era quasi sempre salvo.

Nei due anni successivi, allo scopo di evitare che gli ospiti fuggissero dopo le prime 9 buche, o le prime 9 palline perse, giurando che mai più avrebbero messo piede in quel girone dantesco, furono effettuati alcuni leggeri interventi sul percorso quali: chiusura di 40 bunker e di una dozzina di ostacoli d'acqua nonché rifacimento di una metà dei green. Quest'ultimo soprattutto allo scopo di evitare di non trovare più la palla dopo averla marcata e ripiazzata, perché rotolata in qualche bunker a causa di pendenze assassine.

Dopo questi lavori il campo era soltanto molto difficile, ma bellissimo.

Su di esso ricominciai le consuete partite all'ultimo sangue con altri tre o quattro esemplari di golfista tipici di ogni circolo: T. lo sfortunato, che sprecava metà del tempo a far notare come a lui andasse tutto male; M., al quale i putt sbordavano sempre ed ogni volta sembrava che gli fosse morta la nonna e quasi piangeva; E., che la tirava proprio lunga, ma raramente la ritrovava e comunque mai sulla buca che stava giocando, e io, che a dire di questi tre soggetti, me la cavavo sempre con due o tre maialate, un approccio e un putt, conditi da un'incredibile fortuna.

All'inizio del 1996 la mia convinzione di aggirarmi intorno alla mediocrità mi portò ad una scelta drastica; già ultra cinquantenne e razzolante intorno ad un immeritato 12, decisi di rimettermi nelle mani di un Maestro, dopo tanto tempo senza lezioni; col pro ci conoscevamo da oltre vent'anni e quindi non ebbe difficoltà ad essere sincero con me: dopo i primi dieci colpi in campo pratica mi disse semplicemente "fai schifo".

Confortato dal suo atteggiamento positivo, nel corso della primavera del 1996 cercai di correggere con lui alcuni dettagli del mio gioco quali il grip, l'address, il backswing ed il finish.  Per sei mesi presi una dose massiccia di lezioni su ogni tipo di colpo ed ogni situazione di gioco, praticando come un disperato fino a che non realizzai che, pur da scamorza quale continuavo ad essere, giocavo ormai ogni buca quantomeno per il par.

Una serie di score in gara sotto l'80 (il mio campo è par 73) e addirittura uno score di 74 mi riconciliarono con il Golf e mi portarono ad un mai sperato handicap 7.

Il conseguente messaggio che vorrei trasmettere ai golfisti delusi e, soprattutto, a coloro che, come me, si sentono disperatamente corti, è semplice: ne tiriamo troppi perché la colpiamo male, e non parlo soltanto del gioco lungo, mentre colpendola non dico bene, ma correttamente, chiunque può e deve riuscire a girare intorno agli 80, anche se dai 150 metri gioca un ferro 4 o peggio, ed i suoi drive superano la fatidica soglia dei 200 soltanto perché da tempo si è rassegnato a misurarli in iarde.

E ciò anche se, come me, si avvicina ad essere senior, purché metta in bilancio un po' di sacrifici, con la certezza, però, di mai più dover pagare da bere per non aver passato il tee delle donne.

                                                                                                panix@tin.it